Il Potere Invisibile: il Golden Power e la Tutela dell’Identità Economica nel CasoArmani
- M. V. De Napoli; F. L. Fago
- 20 ott
- Tempo di lettura: 14 min
Con la scomparsa di Giorgio Armani, l’Italia non si priva esclusivamente di un simbolo del gusto, ma si confronta con la questione più ardua: chi detiene, oggi, la sovranità sul proprio genio economico e culturale.
Una potenziale cessione di Armani a un colosso straniero non si leggerebbe solo nelle pagine finanziarie: chiamerebbe in causa il Golden Power, la regola silenziosa che separa la logica dei deal dalla tutela della sovranità economica.
Il decesso di Giorgio Armani, nel 2025, ha inaugurato una delle successioni più delicate e simboliche della storia industriale italiana. Ad essere in discussione non è soltanto il destino di una maison, bensì la continuità di un emblema del Made in Italy come sintesi di misura, rigore e potere estetico.Armani non è mai stato soltanto un imprenditore o un couturier, è inciso nell’immaginario collettivo quale un’istituzione civile, in grado di traslare il proprio gusto in linguaggio e l’eleganza in una forma d’identità. Mediante le sue creazioni, l’Italia ha parlato al mondo con una voce discreta ma autorevole, riconoscibile per quella sobrietà intrisa di forza, per quella compostezza che, più di qualsiasi simbolo, definisce l’autentico prestigio.
Nei suoi testamenti, resi pubblici poche settimane dopo la morte, Armani aveva previsto una struttura successoria complessa.
La Fondazione Giorgio Armani (già titolare di una quota simbolica) è designata erede universale, detentrice del 100% delle quote del gruppo: il 9,9% in piena proprietà, il restante 90% in nuda proprietà, gravato tuttavia da diritti di usufrutto attribuiti a figure chiave come Pantaleo Dell’Orco, i nipoti Silvana Armani e Andrea Camerana, e la sorella Rosanna Armani.
L’imprenditore Milanese trasla la propria precisione anche negli equilibri costruiti, concepiti al fine di garantire un binomio di continuità e controllo.
Nel documento testamentario, lo stilista non si limita a designare eredi, egli “raccomanda” agli stessi di valutare, entro diciotto mesi, una possibile cessione di una quota minoritaria (equivalente al 15%) a tre grandi gruppi internazionali del lusso: LVMH, L’Oréal ed Essilor Luxottica.
I tre, sono interamente di diritto francese, sebbene si distinguano per il differente legame che stringono con l'Italia. Analizzando Luxottica, ad esempio, essa è protagonista di numerose partecipazioni incrociate ed una solida storia di collaborazione industriale.
Tale raccomandazione, nella sostanza, vuole orientare gli eredi verso un’integrazione con partner globali, preservando la coerenza estetica e commerciale del marchio, ma aprendo inevitabilmente la porta a un controllo straniero. È su questo terreno che la questione privata diventa pubblica. La Maison Armani non è un semplice asset finanziario: è un simbolo, un generatore di occupazione, filiere e reputazione nazionale. Una sua cessione, anche solo parziale, non può essere letta unicamente con la lente della libertà testamentaria o della convenienza economica.
Richiede un’analisi che coinvolge la sovranità industriale, la continuità produttiva e la tutela dei marchi identitari. Proprio per questo motivo, il caso Armani ha riacceso il dibattito sul Golden Power italiano. L’idea che un marchio come Armani possa essere assorbito da un conglomerato straniero solleva dunque interrogativi che travalicano la finanza. Lo stesso Ministero delle Imprese e del Made in Italy, attraverso fonti riportate da Elle e dal Corriere dell’Economia, ha lasciato intendere che un’operazione di tale portata potrebbe rientrare nel perimetro del Golden Power, prevedendo la possibilità di imporre condizioni stringenti o persino un veto, qualora l’operazione minacciasse “l’interesse nazionale”.
Ciò apre un capitolo nuovo nella storia del diritto economico italiano: per la prima volta, uno strumento concepito per proteggere le infrastrutture strategiche e la sicurezza nazionale potrebbe essere invocato per difendere un marchio di moda. La questione non è meramente giuridica, ma politica, culturale e identitaria. Si tratta di stabilire se la sovranità economica debba limitarsi alla difesa dei confini materiali, o estendersi anche a quelli immateriali, dove risiede il valore reputazionale e simbolico del Paese.
La vicenda Armani, dunque, si configura quale una linea di demarcazione tra due visioni del capitalismo nazionale. Da un lato, quella che privilegia la libertà d’impresa e la circolazione dei capitali in un mercato globalizzato. Dall’altro, quella che rivendica la necessità di proteggere i marchi che incarnano la cultura economica italiana, come elementi di interesse pubblico.
In questo scenario, il Golden Power cessa di apparire quale un tecnicismo di diritto amministrativo, bensì come una leva geopolitica, una forma moderna di “diplomazia economica difensiva”. È lo strumento previa, il quale lo Stato afferma il proprio diritto a vigilare sulle scelte strategiche di un sistema industriale che, pur globalizzato, resta portatore di valori nazionali.
La morte di Armani, dunque, non ha soltanto aperto una successione ereditaria, ma ha acceso una riflessione collettiva sul confine sottile tra mercato e sovranità. La moda, il lusso e il design, originariamente ritenuti effimeri, divengono oggi temi di interesse strategico, parte integrante dell’identità economica e diplomatica del Paese. E il Golden Power, da clausola di tutela settoriale, si trasforma in un trattato di politica industriale.
Dalla Golden Share al Golden Power: evoluzione normativa e fondamento giuridico dei poteri speciali dello Stato
Al fine di comprendere la portata di questo istituto è necessario partire dalla sua genesi.Il Golden Power nasce nel 2012 con il Decreto-Legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito nella Legge 11 maggio 2012, n. 56, e rappresenta la sostituzione formale e sostanziale della precedente disciplina della Golden Share. Quest’ultima, introdotta in Italia mediante l’art. 2 del D.L. 31 maggio 1994, n. 332, nel contesto delle grandi privatizzazioni, attribuiva allo Stato (previa il Ministero dell’Economia e delle Finanze) poteri speciali di veto e di controllo all’interno delle società operanti in settori di interesse strategico (difesa, energia, telecomunicazioni, trasporti).
La Golden Share trovava il suo fondamento nel possesso di azioni privilegiate, che conferivano allo Stato diritti particolari, quali il veto su acquisizioni da parte di soggetti non graditi, l’opposizione a patti parasociali che avrebbero modificato gli equilibri azionari ed il diritto di nominare un amministratore, definito “di garanzia”. Si trattava, in sostanza, di un potere proprietario e non normativo: lo Stato manteneva, anche a seguito la privatizzazione, una posizione di influenza mediante lo statuto societario.
Tale meccanismo si rivelò tuttavia incompatibile con il diritto dell’Unione Europea.La Corte di Giustizia, con le note sentenze Commissione c. Italia (C-58/99, 23 maggio 2000) e Commissione c. Regno Unito (C-98/01, 13 maggio 2003), sancì che la Golden Share violava gli articoli 43 e 56 del Trattato CE (oggi art. 49 e 63 TFUE), poiché costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali. In particolare, la Corte ritenne irrilevante il fatto che tali poteri derivavano da clausole statutarie anziché da norme di legge: quanto di rilievo erano le conseguenze economiche del regime, determinanti un’ingerenza arbitraria dello Stato nella gestione delle società privatizzate.
L’Italia, per conformarsi alle censure comunitarie, abrogò il sistema delle azioni privilegiate e introdusse un nuovo modello: il Golden Power. La differenza strutturale tra i due istituti è sostanziale. Se la Golden Share poneva i suoi fondamenti sul possesso di una partecipazione azionaria e conferiva poteri direttamente collegati alla qualità di socio, il Golden Power si configura in qualità di un potere pubblico di intervento, esercitabile in via autoritativa e indipendentemente da qualsiasi rapporto di proprietà.Lo Stato, dunque, cessa di agire da azionista e trasla il proprio ruolo in custode dell’interesse nazionale.
Il D.L. 21/2012 ha delineato un quadro organico di poteri speciali che il Governo ha facoltà diesercitare riguardo operazioni societarie o acquisizioni applicate a imprese titolari di attività di rilevanza strategica.
Tali poteri possono consistere in:
veto all’acquisizione di partecipazioni qualora l’operazione comporti un rischio per la difesa o la sicurezza nazionale
imposizione di condizioni specifiche per la realizzazione dell’operazione
opposizione a delibere o atti di straordinaria amministrazione
In origine, l’ambito di applicazione era circoscritto ai settori della difesa, della sicurezza nazionale, dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Tuttavia, il legislatore ha progressivamente esteso il perimetro, riconoscendo che la nozione di “strategico” evolve insieme alla struttura economica e tecnologica del Paese.
Durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, il Governo ha introdotto una riforma espansiva del Golden Power, con il D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. “Decreto Liquidità”) e successivi decreti attuativi del 2021.Questi interventi, adottati in coordinamento con il Regolamento (UE) 2019/452, hanno ampliato il raggio d'azione includendo anche settori fino ad allora non contemplati:
sanità e dispositivi medicali,
agroalimentare e catene di approvvigionamento critiche,
intelligenza artificiale e biotecnologie,
sicurezza informatica, infrastrutture digitali e trattamento dei dati,
media, finanza, assicurazioni, acqua e tecnologie emergenti dual-use.
In tal modo, il Golden Power è divenuto un meccanismo di screening preventivo sugli investimenti esteri, volto a garantire che operazioni di acquisizione o controllo non compromettano la sicurezza, la continuità produttiva o la sovranità tecnologica nazionale. Le imprese operanti nei settori individuati devono notificare preventivamente alla Presidenza del Consiglio dei ministri qualsiasi operazione straordinaria, fusione, scissione o trasferimento di partecipazioni che possa incidere sugli asset strategici. Il mancato adempimento a tale obbligo comporta sanzioni severe, che vanno dalla nullità dell'operazione all'applicazione di multe fino al doppio del valore della transazione o a una percentuale rilevante del fatturato dell’impresa coinvolta.
Oggi, la ratio del Golden Power non risiede solo nella difesa da minacce esterne, ma nel mantenimento di un equilibrio tra apertura del mercato e tutela della sovranità economica.Da strumento di controllo militare ed energetico, si è trasformato in un presidio della sicurezza sistemica: non solo delle infrastrutture materiali, ma anche dei settori ad alto contenuto simbolico e reputazionale.
In quest’ottica, la sua applicazione si spinge progressivamente verso i settori del “soft power”, riconoscendo in essi non un valore accessorio, ma un bene strategico nazionale, capace di incidere sulla proiezione economica e culturale dell’Italia nel mondo. Proteggere tali comparti, oggi, significa proteggere la forma medesima della sovranità contemporanea: quella identitaria.
La strategicità del lusso nel contesto del Made in Italy
Il settore del lusso, nel quadro dell’ordinamento economico italiano, rappresenta un ambito di rilevanza strategica sotto il duplice profilo economico e culturale. Esso non costituisce soltanto una branca della manifattura, ma un elemento strutturale dell’identità economica nazionale. Il Made in Italy — espressione sintetica di creatività, estetica, artigianalità e innovazione — configura un bene collettivo immateriale che contribuisce in misura significativa alla formazione del PIL e alla bilancia commerciale del Paese, stimato in circa il 12% del comparto manifatturiero.
La tutela del settore del lusso non può, pertanto, essere confinata alla sfera del diritto privato o alla mera regolazione di mercato. Essa implica una lettura sistematica dei principi costituzionali di libertà economica (art. 41 Cost.), di tutela del patrimonio culturale (art. 9 Cost.) e di sussidiarietà (art. 118 Cost.), i quali impongono allo Stato di garantire che le attività economiche si svolgano in modo coerente con l’utilità sociale e con la salvaguardia dell’identità nazionale.
I marchi di lusso italiani — tra cui Giorgio Armani, Gucci, Prada, Bulgari e Valentino— costituiscono vere e proprie istituzioni economiche di interesse pubblico, portatrici di un capitale simbolico e reputazionale che trascende il valore commerciale. Sotto il profilo giuridico, tali marchi configurano un insieme di beni immateriali protetti dal Codice della Proprietà Industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), che tutela i marchi, i disegni, i modelli e i segreti industriali (artt. 7 e 98). La loro rilevanza sistemica deriva dall’essere parte di un più ampio ecosistema produttivo e culturale, composto da distretti industriali, maestranze specializzate e fornitori altamente qualificati.
In un contesto di crescente globalizzazione dei capitali e di concentrazioni industriali transnazionali, la protezione del Made in Italy assume una valenza analoga a quella riconosciuta, in altri ordinamenti, ai settori strategici tradizionali (energia, difesa, telecomunicazioni). Ciò è particolarmente evidente nel confronto con la Francia, dove la tutela dei cosiddetti championsnationaux — gruppi come LVMH, Hermès e Kering — è considerata parte integrante della politica industriale nazionale.
Attraverso il Conseil des Participations de l’État e la presenza azionaria dello Stato in talune imprese chiave, la Francia ha istituzionalizzato un modello di intervento pubblico selettivo, volto a preservare il controllo nazionale su asset di valore culturale ed economico. In Italia, invece, pur esistendo un Ministero delle Imprese e del Made in Italy e strumenti di tutela settoriale, manca un meccanismo di coordinamento pubblico strutturato, in grado di vigilare sugli investimenti esteri nei settori ad alta valenza simbolica e reputazionale.
Alla luce di tale lacuna, la dottrina economico-giuridica propone l’introduzione di un registro nazionale delle imprese strategiche del Made in Italy, analogo al Registre des entreprises stratégiques francese, che consentirebbe un monitoraggio preventivo delle operazioni societarie potenzialmente lesive dell’interesse economico nazionale. Tale strumento si porrebbe in linea con il principio di tutela dell’ordine pubblico economico, già riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenze Commissione c. Belgio, C-503/99 e Commissione c. Italia, C-58/99).
Tra libertà d’impresa e interesse nazionale: la questione Armani nel quadro del diritto positivo
L’ipotesi di una cessione del gruppo Armani a investitori esteri rappresenta un caso paradigmatico per analizzare i limiti giuridici della libertà d’impresa e della circolazione dei capitali in rapporto alla tutela dell’interesse nazionale. La cessione di un marchio di tale portata non può essere valutata unicamente alla luce del diritto societario e della libertà contrattuale, ma deve essere esaminata in chiave sistemica, considerando le conseguenze economiche, sociali e culturali dell’operazione.
Dal punto di vista identitario, un trasferimento del controllo azionario del gruppo ad attori internazionali rischierebbe di compromettere la continuità culturale del marchio, determinando uno scollamento tra la strategia d’impresa e l’immagine storica del brand come simbolo di eleganza e sobrietà italiana. Tale perdita di coerenza valoriale si tradurrebbe in un indebolimento dell’intero comparto del Made in Italy. Ai sensi dell’art. 41, comma 2, Cost., l’iniziativa economica privata non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale”, e la salvaguardia della continuità culturale di un marchio di interesse nazionale può costituire, in tale prospettiva, una condizione di compatibilità costituzionale.
Sul piano industriale, l’impatto su filiere e distretti artigianali (Como, Biella, Vicenza, Prato, Carpi) risulterebbe significativo. Tali realtà costituiscono centri di competenze riconosciuti come “beni immateriali collettivi”, la cui tutela è richiamata dall’art. 174 TFUE in materia di coesione economica e sociale. L’eventuale delocalizzazione produttiva violerebbe lo spirito della Legge n. 77/2006, che riconosce ai distretti industriali un ruolo strategico nel mantenimento della competitività territoriale.
Un’ulteriore criticità riguarda la proprietà intellettuale: archivi, bozzetti, modelli e database costituiscono un patrimonio culturale soggetto alle tutele del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42/2004), che consente di apporre vincoli anche su beni privati di rilevante interesse storico o artistico (art. 10). Il trasferimento all’estero di tale patrimonio potrebbe essere ritenuto lesivo dell’interesse nazionale, configurando una fattispecie di esportazione non autorizzata di beni culturali.
A livello normativo, la principale leva di tutela risiede nel d.l. 15 marzo 2012, n. 21, convertito in l. n. 56/2012, che disciplina i poteri speciali del Governo (Golden Power) nei settori strategici. L’art. 1, comma 1, riconosce al Governo la facoltà di opporsi o imporre condizioni alle acquisizioni che “minaccino la sicurezza o l’ordine pubblico economico”. Sebbene il comparto del lusso non sia oggi incluso tra quelli soggetti a notifica, una lettura estensiva della norma, coerente con i principi dell’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, consentirebbe di ricomprendere anche le imprese che contribuiscono in modo determinante alla proiezione culturale e internazionale dello Stato.
La giurisprudenza amministrativa italiana ha, del resto, riconosciuto l’ampiezza della discrezionalità governativa nell’esercizio dei poteri speciali, come evidenziato dal TAR Lazio, sent. n. 9281/2022, secondo cui la valutazione dell’interesse nazionale non può limitarsi a parametri economici, ma deve includere considerazioni strategiche e reputazionali.
Nel caso Armani, l’applicazione del Golden Power garantirebbe la possibilità di imporre condizioni vincolanti — come il mantenimento della sede legale in Italia, la conservazione degli archivi sul territorio nazionale e la salvaguardia della catena produttiva — in coerenza con il principio di proporzionalità e con la libertà di stabilimento prevista dagli artt. 49 e 63 TFUE.
La rilevanza del Golden Power nelle operazioni di M&A e Private Equity
La disciplina del Golden Power ha assunto negli ultimi anni una crescente centralità nelle operazioni di Mergers & Acquisitions (M&A) e di Private Equity, incidendo direttamente sulla struttura contrattuale, sui tempi di esecuzione e sulla pianificazione strategica delle operazioni.Essa si inserisce nel più ampio contesto del diritto europeo degli investimenti esteri, regolato dal Regolamento (UE) 2019/452, che istituisce un quadro comune per il controllo degli investimenti diretti esteri (IDE) negli Stati membri, fondato sul principio di cooperazione e notifica reciproca tra le autorità nazionali.
L’obbligo di notifica preventiva al Governo, previsto dall’art. 2 del d.l. 21/2012, si applica oggi a un ampio ventaglio di operazioni: acquisizioni, fusioni, scissioni, trasferimenti di rami d’azienda o di tecnologie critiche. La Presidenza del Consiglio dei ministri dispone di 45 giorni per esercitare i poteri speciali di veto, prescrizione o opposizione, prorogabili nei casi di particolare complessità.
La mancata notifica comporta la nullità dell’atto e l’applicazione di sanzioni pecuniarie fino al doppio del valore dell’operazione.
Dal punto di vista contrattuale, i fondi di investimento e gli advisor legali sono tenuti a introdurre clausole sospensive condizionate all’autorizzazione governativa, la cui mancata concessione può determinare la risoluzione del contratto per inadempimento non imputabile. Tale prassi ha determinato un mutamento strutturale nel diritto dei contratti d’impresa, introducendo elementi di risk allocation politica finora sconosciuti alle transazioni private.
Il rischio di allungamento dei tempi di closing e l’incertezza sull’esito delle autorizzazioni inducono spesso gli operatori stranieri a riconsiderare la convenienza economica di determinate acquisizioni. Tuttavia, la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni governative — in particolare attraverso la pubblicazione di linee guida interpretative (D.P.C.m. 133/2022) — hanno mitigato tali criticità, rendendo il sistema più trasparente e conforme ai principi del diritto europeo.
I casi Telecom Sparkle (2021) e Fastweb (2022) hanno dimostrato la capacità del Golden Power di agire come strumento di difesa preventiva contro la perdita di controllo su infrastrutture strategiche, imponendo condizioni di governance e sicurezza informatica. Analogamente, l’estensione di tale regime al settore del lusso potrebbe essere giustificata dalla nozione allargata di sicurezza economica nazionale, che include la tutela dei marchi simbolo dell’identità italiana.
Sotto il profilo sistematico, il Golden Power si colloca a metà strada tra diritto pubblico dell’economia e diritto commerciale europeo, costituendo uno strumento di bilanciamento tra libertà di mercato e tutela della sovranità economica. La sua applicazione al settore del lusso risponderebbe all’esigenza di preservare non solo gli interessi economici, ma anche il capitale reputazionale e culturale della Nazione. In tal senso, il Made in Italy può essere considerato un bene giuridico di rilievo costituzionale, la cui protezione rientra tra le funzioni essenziali dello Stato moderno.
Prospettive future, il processo di screening UE
Il Golden Power tende ad assumere un ruolo in costante demarcazione in leva geopolitica. Sebbene la propria origine, fosse finalizzata alla protezione economica, oggi è impiegata in chiave strategica al fine di influenzare i flussi di capitale, indirizzare gli assetti proprietari di imprese considerate essenziali e difendere la sovranità industriale del Paese in un contesto di forte competizione globale.
L’Italia, nota nel panorama europeo per disporre di una normativa tra le più articolate ed operative, ha esteso l’ambito di applicazione del Golden Power oltre i settori tradizionali della difesa, dell’energia e delle comunicazioni, intervenendo anche su tecnologie digitali, infrastrutture critiche, finanza e persino nel lusso, quando l’operazione riguarda brand considerati strategici per l’identità economica nazionale. L’impiego di tale strumento riflette una tendenza, comune denominatore del modus operandi di molti Stati Europei, vale a dire, la progressiva politicizzazione degli investimenti esteri, in particolar modo, se contemplati operatori legati a governi di Paesi extra-UE o con interessi divergenti rispetto a quelli dell’Unione.
In questo scenario, l’Unione Europea compie una mutazione verso un sistema di screening più integrato e coordinato. Il Regolamento dell’Unione Europea n. 2019/452 ha rappresentato il primo passo nel costruire un quadro di cooperazione tra Stati membri e Commissione Europea, basato sulla condivisione di informazioni e sull’analisi congiunta dei rischi connessi agli investimenti esteri.
Tuttavia, la proposta di riforma presentata dalla Commissione il 24 gennaio 2024 segna un’evoluzione decisiva, proponendosi di sostituire il regolamento attuale introducendo obblighi minimi di controllo per tutti gli Stati membri, estendendo lo screening anche agli investitori europei controllati da soggetti stranieri e ai greenfield investments, vale a dire, alla creazione di nuove attività produttive da parte di gruppi esteri.
Il nuovo sistema prevederebbe inoltre l’introduzione di poteri di revisione post-closing, quali consentirebbero ai governi nazionali e alla Commissione di riaprire l’analisi di un’operazione fino a quindici mesi a seguito la sua conclusione, qualora dovessero emergere rischi per la sicurezza o per l’ordine pubblico.
Le operazioni coinvolgenti una pluralità di Paesi europei, la proposta introduce un coordinamento obbligatorio delle notifiche, da presentare in modo simultaneo, al fine di evitare sovrapposizioni e garantire una valutazione coerente a livello sovranazionale.
La tendenza verso una armonizzazione delle procedure nazionali risponde alla necessità di evitare differenze troppo ampie tra i vari ordinamenti, che potrebbero essere sfruttate dagli investitori per aggirare i controlli. L’obiettivo politico è duplice:
garantire un livello minimo uniforme di tutela
costruire una difesa economi
ca comune europea
Il futuro del Golden Power appare quindi intrecciato con la nascita di un meccanismo europeo di sicurezza economica. La progressiva convergenza dei regimi nazionali verso uno schema coordinato non ridurrà esclusivamente la sovranità degli Stati, bensì dar luogo ad una strategia comune, maggiormente ampia e strutturata.
In tale prospettiva, l’Italia, forte della propria esperienza nell’applicazione pratica del Golden Power, si colloca in posizione di rilievo nel processo di definizione di un modello europeo che unisce apertura ai mercati globali e difesa degli interessi strategici del continente.
Tutela dell’identità economica: il Made in Italy come bene pubblico
Custodire Armani non significa proteggere un marchio, bensì un codice identitario. È preservare l’idea medesima di Italia: il paese che trasforma il gusto in potere e l’eleganza in linguaggio strategico.
Il Golden Power non è un freno, è la clausola invisibile che ogni investitore deve saper leggere tra le righe di un deal concluso in questa nazione. È la soglia oltre la quale la finanza incontra la sovranità, e il capitale deve inchinarsi al concetto di appartenenza.
Nel caso Armani, non si parla di numeri, ma di simboli: la moda declinata in infrastruttura culturale, la bellezza in asset nazionale.
Chi investe in Italia deve esserne cosciente, opera in una realtà dove i marchi non si comprano, si custodiscono.

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