top of page
A. Tucci S.Brigliadori

L'acquisto di azioni proprie: aspetti normativi e finalità strategiche

1. Definizione dell’istituto e disciplina legale

L’acquisto di azioni proprie, anche noto come buyback, è un’operazione finanziaria che consiste nell’acquisto da parte di una società delle proprie azioni, utilizzando a tal fine la propria liquidità o capitale derivante da prestiti. La società per azioni che acquista azioni proprie sceglie dunque di investire nei titoli azionari emessi da essa stessa.

La disciplina prevista dal codice civile impone cautela, dato che l’acquisto di azioni proprie si rivela pericoloso da molteplici punti di vista. Per quanto concerne il profilo patrimoniale, il buyback potrebbe comportare una riduzione dell’entità del capitale sociale reale (c.d. annacquamento del capitale sociale), senza che venga osservato il dettato dell’art. 2445 c.c. e, dunque, in modo surrettizio. Il pagamento del corrispettivo, effettuato dalla società nei confronti dell’azionista, potrebbe infatti rivelarsi uno strumento che permetterebbe di eludere il divieto di liberare i soci dall’obbligo di effettuare eventuali versamenti ancora dovuti o il divieto di restituire anticipatamente ai soci l’ammontare dei conferimenti.

L’acquisto di azioni proprie potrebbe anche alterare il corretto funzionamento degli organi sociali, dato che nell’ambito dell’assemblea gli amministratori acquisirebbero un maggiore potere di controllo attraverso il diritto di voto, in quanto rappresentanti della società proprietaria delle azioni. Infine, l’acquisto di azioni proprie potrebbe determinare un’alterazione dell’equilibrio del mercato se adoperato come espediente per realizzare manovre speculative, al fine di aumentare il valore delle azioni dell’emittente sul mercato o manipolarne il prezzo.

Il legislatore italiano, nell’ottica di far fronte a tali problematiche, stabilisce le condizioni di legittimità per l’acquisto di azioni proprie, che consistono in una serie di limiti e regole procedurali sanciti dall’art. 2357 c.c., applicati anche nel momento in cui la società procede all’acquisto di azioni proprie per tramite di società fiduciarie o per interposta persona.

In primo luogo, le somme impiegate nell’acquisto di azioni proprie non possono eccedere l’ammontare degli utili distribuibili e delle riserve disponibili (facoltative, statutarie e il fondo sovrapprezzo azioni nei limiti della sua disponibilità) risultanti dall’ultimo bilancio approvato, le quali configurano somme liberamente distribuibili ai soci. Se così non fosse, il vincolo di indisponibilità del patrimonio netto, il quale corrisponde a capitale sociale e riserva legale, sarebbe violato.

In secondo luogo, la società emittente può acquistare unicamente azioni interamente liberate, in modo tale da non diventare mai creditrice di sé stessa in riferimento ai conferimenti ancora dovuti. Questa regola è volta anche ad evitare che la società preferisca taluni azionisti rispetto ad altri, liberandoli dall’obbligo di versamento dei conferimenti ancora dovuti.

L’acquisto di azioni proprie deve essere, inoltre, autorizzato dall’assemblea ordinaria attraverso una delibera che non può essere generica, ma che anzi deve fissare le modalità di acquisto, indicando il numero massimo di azioni da acquistare, la durata per la quale l’autorizzazione è accordata (non superiore a 18 mesi) ed il corrispettivo minimo e massimo. È inoltre possibile che vi sia una contestuale autorizzazione alla rivendita, in modo tale che si possa procedere ad operazioni incrociate di compravendita di azioni proprie (si parlerà in questo caso di “trading di azioni proprie”). Il potere discrezionale degli amministratori viene in questo modo limitato, nonostante spetti ad essi la valutazione ultima sull’opportunità di acquisto e la facoltà di desistere dal compimento dell’operazione anche dopo l’intervenuta autorizzazione.

Infine, per quanto concerne le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il valore nominale delle azioni acquistate non può mai eccedere la quinta parte del capitale sociale, tenendo conto anche delle azioni possedute da società controllate. In questo modo, la società non è nella facoltà di incidere sul mercato dei propri titoli.

Le società con azioni negoziate sui mercati saranno inoltre tenute al rispetto delle limitazioni fissate dalla Consob. In base alla disciplina nazionale, l’acquisto delle azioni proprie potrà avvenire in questo caso tramite un’offerta pubblica di acquisto o di scambio o ancora mediante l’attribuzione ai soci di un’opzione di vendita in proporzione alle azioni da loro possedute.

Qualora le condizioni suddette non siano rispettate, gli acquisti si intenderanno comunque come validi. Tuttavia, gli amministratori sarebbero esposti a sanzioni penali. Le azioni acquistate in violazione delle regole procedurali devono essere vendute entro un anno dal loro acquisto, secondo le modalità fissate dall’assemblea. In mancanza di una vendita, la società dovrà procedere all’annullamento di tali azioni ed alla corrispondente riduzione del capitale sociale. Qualora l’assemblea risulti inerte, tale riduzione del capitale sociale sarà disposta d’ufficio dal tribunale, su richiesta di amministratori e sindaci.

L’unica eventualità in cui non sussiste l’obbligo di alienazione è quella in cui la violazione del limite del quinto del capitale sociale o l’impiego di fondi che eccedano gli utili o le riserve disponibili risultino sanati entro l’anno concesso per l’alienazione dall’art. 2357 c.c.


2. Il computo delle azioni proprie nei quorum assembleari

I diritti sociali relativi alle azioni proprie sono sterilizzati: il diritto di voto e gli altri diritti amministrativi si intendono pertanto sospesi.

Per quanto concerne le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, ai fini di agevolare il funzionamento dell’assemblea, si applica la regola generale inerente alle azioni con diritto di voto sospeso, che ne prevede il computo all’interno del solo quorum costitutivo ma non di quello deliberativo.

Nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (dove non esistono limiti quantitativi per l’acquisto) prevale l’esigenza di evitare che la detenzione di azioni proprie abbassi i quorum assembleari, rafforzando la posizione del gruppo di comando. Pertanto, è stabilito che le azioni proprie vengano sempre computate ai fini del calcolo del quorum costitutivo e deliberativo dell’assemblea.

Si ricorda a tal proposito il caso Salini, in cui una importante società per azioni non quotata vedeva al proprio interno due gruppi di soci in costante disaccordo: il primo gruppo era titolare del 47% delle azioni, il secondo del 43%, mentre la restante parte era costituita da azioni proprie. La delibera di approvazione del bilancio del 2010, di competenza dell’assemblea ordinaria, fu dichiarata approvata con voto favorevole del gruppo di soci titolare del 47% delle azioni e il voto contrario del restante 43%. I soci contrari all’approvazione impugnarono la delibera, argomentando che non era stata raggiunta la maggioranza richiesta dalla legge in relazione al quorum deliberativo nell’assemblea ordinaria di seconda convocazione (50% + 1 del capitale rappresentato in assemblea, senza tener conto delle azioni a voto sospeso e del capitale rappresentato dagli astenuti), che avrebbe dovuto vedere le azioni proprie come intervenute ed astenute. Il risultato della deliberazione sarebbe dunque dovuto essere il rigetto della proposta di approvazione del bilancio, dovendosi cumulare i voti di coloro che si erano espressi contrariamente alle astensioni (riferibili ai voti delle azioni proprie).

Mentre il Tribunale di Roma, investito della questione in primo grado, rigettò l’impugnazione, la Corte d’Appello di Roma riformò la sentenza, stabilendo quanto prescritto dall’art. 2357-ter c.c., cioè che all’interno di società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le azioni proprie si conteggiano sia nel quorum assembleare costitutivo che in quello deliberativo. Tale sentenza di secondo grado venne da ultimo confermata dalla Corte di Cassazione.


3. Aspetti contabili del riacquisto di azioni proprie

La dottrina economico-aziendale ha per lungo tempo proposto due distinte interpretazioni dell’operazione di acquisto di azioni proprie. Da un lato, lo shares buyback può essere visto come una sorta di investimento, da parte di una società, in azioni dalla stessa emesse in precedenza. Inquadrare l’operazione di buyback in questo modo è intuitivo, soprattutto se si rivolge l’attenzione a ciò che accade nei mercati finanziari, dove non è raro che una società, avendo liquidità a disposizione, e giudicando il proprio titolo sottovalutato sul mercato, decida di acquistarlo, potendo poi cederlo in un momento successivo, realizzando auspicabilmente una plusvalenza.

Secondo un’altra interpretazione, l’essenza di questa operazione sarebbe riconducibile ad una restituzione di ricchezza da parte di una società ai propri azionisti. Questo secondo modo di vedere il buyback si abbina sicuramente meglio al contesto tipico delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. È il caso, per esempio, della piccola società a controllo familiare che, in assenza di un mercato attivo sul quale vengono negoziati i titoli, proceda in prima persona all’acquisto delle azioni di uno dei soci, liquidando al medesimo il controvalore della sua quota, al fine di agevolarne l’uscita dalla compagine sociale.

Questa dicotomia riguardante l’essenza dell’operazione di buyback ha avuto significative ripercussioni sul piano contabile. La modalità di rappresentazione in bilancio del riacquisto di azioni proprie da parte di una società ha infatti conosciuto, in tempi recenti, un significativo rinnovamento. Fino al 2016, l’articolo 2357-ter del Codice Civile prevedeva che l’operazione di buyback avrebbe dovuto essere contabilizzata iscrivendo all’attivo le azioni proprie al costo di acquisto e al passivo una riserva di patrimonio netto (c.d. “riserva azioni proprie”), indisponibile e non distribuibile. Questa modalità di rappresentazione dell’operazione appariva di certo più coerente con la visione del buyback quale investimento, al punto che le azioni proprie venivano iscritte all’attivo di stato patrimoniale come un vero e proprio asset. Il decreto legislativo numero 139 del 18 agosto 2015, attuativo della Direttiva 2013/34/UE, ha però apportato rilevanti modifiche all’articolo 2357-ter, il cui terzo comma oggi impone di rilevare contabilmente il riacquisto di azioni proprie tramite l’iscrizione di una “riserva negativa per azioni proprie in portafoglio”, la quale riduce il patrimonio netto di un importo pari al costo di acquisto delle azioni stesse.

Il rinnovato articolo 2357-ter c.c. propone dunque una soluzione equilibrata, sicuramente più in linea con l’interpretazione del buyback quale modalità di redistribuzione di ricchezza agli azionisti, e, allo stesso tempo, in grado soddisfare l’esigenza di prudenza che dovrebbe caratterizzare tutte le misurazioni di bilancio.


4. Obiettivi strategici del riacquisto di azioni proprie

Come già si è avuto modo di evidenziare, il riacquisto di azioni proprie può comportare rischi di varia natura. Tuttavia, molteplici sono le finalità strategiche, in aggiunta a quelle presentate in precedenza, che possono spingere una società a fare ricorso ad un buyback, specie quando la stessa abbia titoli quotati:

  • Rendere le azioni più appetibili per i potenziali investitori, nonché migliorare gli indicatori di mercato di un’emittente. Riducendo il numero di titoli in circolazione, infatti, il rapporto “utili per azione” (comunemente detto EPS, ossia Earnings Per Share) di una società, a parità di reddito netto, risulterebbe automaticamente incrementato.

  • Agevolare la crescita per linee esterne (se le azioni proprie non vengono successivamente annullate). È il caso di una società quotata, con titoli molto liquidi, che avendo in precedenza effettuato uno shares buyback decida di acquisire un’altra società, remunerando i proprietari di quest’ultima tramite le azioni riacquistate sul mercato.

  • Consentire la distribuzione agli azionisti di un dividendo in natura (stock dividend).

  • Realizzare piani di stock-options destinati ai manager, evitando in quest’ultimo caso di effettuare un aumento di capitale, che comporterebbe una diluizione per gli altri soci.

  • Remunerare gli attuali investitori, i quali, a seguito del riacquisto, diverranno beneficiari di un maggior flusso di dividendi (a parità di utile distribuito), dato che, per le azioni proprie in portafoglio di un’emittente, il diritto a percepire il dividendo risulta sterilizzato.

  • Rendere maggiormente complicate eventuali scalate ostili, ossia tentativi di assumere il controllo di una società da parte di soggetti estranei alla compagine sociale, grazie al minor numero di azioni in circolazione.

5. Evidenze recenti di buyback nel mercato americano

Grazie alla sua notevole versatilità, lo strumento di buyback azionario ha conosciuto nell’ultimo decennio grande popolarità, soprattutto in USA. Lo S&P 500 buyback index, che segue i 100 titoli più attivi sul fronte dei riacquisti, mostra infatti un’impennata a partire dal 2012. Tra le imprese più avvezze a questo tipo di operazione figura senza dubbio Apple: a partire dal 2013 il colosso della Silicon Valley ha dedicato circa 460 miliardi di dollari al buyback azionario, di cui ben 85 nel 2021, contro i soli 15 miliardi destinati ad essere distribuiti sotto forma di dividendi nello stesso anno. Meta, la società statunitense che controlla social media come Facebook e Instagram, ha riacquistato azioni proprie per circa 28 miliardi di dollari nel 2022.

In USA, il fenomeno del buyback è stato certamente agevolato anche dalla riforma tributaria varata nel 2017 dal presidente Donald Trump. Con questa manovra, l’ex presidente americano ha inteso incentivare l’aumento dei profitti aziendali e il rimpatrio dei capitali detenuti all’estero dalle grandi società statunitensi, anche attraverso una netta riduzione dell’aliquota fiscale della corporate tax (dal 35% al 21%). Nonostante l’intenzione di Trump fosse far sì che la maggiore liquidità a disposizione delle aziende venisse investita in incrementi salariali, assunzioni ed investimenti in economia reale, molti dei soldi risparmiati in tasse dalle grandi corporations sono serviti, tramite operazioni di buyback, ad arricchire i rispettivi azionisti e ad implementare piani di stock option destinati ai manager. Questi effetti sono in buona parte riconducibili all’assenza di impieghi alternativi di capitale giudicati interessanti dalle imprese.

6. Conclusioni

Il riacquisto di azioni proprie presenta risvolti significativi, sia sotto l’aspetto normativo sia dal punto di vista economico-finanziario. Alla luce dell’analisi svolta, risulta complicato fornire un giudizio complessivo in merito a questa operazione. Da un lato, il buyback è uno strumento estremamente versatile. Oltre ad essere sempre più diffuso sui mercati finanziari, dove è accolto con favore dagli investitori, esso può rivelarsi molto utile anche nell’ambito di compagini sociali ristrette.

Tuttavia, si tratta sicuramente di un’operazione controversa, foriera di numerosi rischi, i quali giustificano altrettanti presidi normativi volti alla tutela di coloro che a vario titolo finanziano la società.


BIBLIOGRAFIA

G. F. Campobasso, “Diritto commerciale 2: Diritto delle società”, 10ª edizione a cura di M. Campobasso, 2020.


Nicola De Luca, Andrea Napolitano, “Azioni proprie: computo nei quorum e illegittima composizione. Questione chiusa?”, La rivista del diritto societario, 2018. https://www.rivistadirittosocietario.com/azioni-proprie-computo-quorum-illegittima-disposizione


Enrico Marro, “Posti di lavoro o buyback azionari? Ecco dove finiscono i soldi di Trump.”, Il Sole 24 Ore, 2017. https://www.ilsole24ore.com/art/posti-lavoro-o-buyback-azionari-ecco-dove-finiscono-soldi-trump-AEpRyIYD


Maurizio Sgroi, “Triplicati in un decennio. La grande abbuffata globale di buyback.”, Il Sole 24 Ore, 2015. https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/09/22/abbuffata-buyback/




175 visualizzazioni0 commenti

Comentarios


bottom of page