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G. Intrieri, G. Lupoi

Trouble in Paradise? Paesi a fiscalità agevolata e società offshore

Negli ultimi anni l’acronimo ESG è diventato lessico comune in ambito societario. Tale termine si riferisce alla capacità di un’impresa di crescere in maniera sostenibile in relazione a tre parametri: Ambiente (Enviromental), Sociale (Social) e Governo (Governance). Nonostante l’OCSE abbia stimato che l’elusione fiscale costi ai governi attorno ai 100-240 miliardi di dollari l'anno, circa il 4-10 per cento del gettito mondiale delle imposte sulle società, la tematica della trasparenza fiscale è spesso inspiegabilmente assente da ogni considerazione ESG [1]. Questo appare quantomeno bizzarro, se consideriamo l’enorme impatto sociale delle pratiche fiscali elusive: allo Stato vengono a mancare fondi che avrebbero potuto finanziare investimenti in sanità, istruzione, sistema pensionistico e infrastrutture. Spesso è il cittadino stesso che ne paga direttamente le conseguenze, dovendo versare tributi più alti. Per non parlare degli effetti anticoncorrenziali: le imprese locali sono fortemente svantaggiate rispetto a multinazionali che riescono a trasferire i ricavi offshore, abbattendo il proprio onere fiscale.


Ma per la prima volta sembra che qualcosa stia cambiando: il prossimo mese gli azionisti di Amazon voteranno in assemblea generale ordinaria su una shareholder proposal in materia di trasparenza fiscale della società [2]. In particolare, la risoluzione chiede al Consiglio di Amministrazione di pubblicare un report sulla trasparenza fiscale adottando il Global Reporting Initiative’s (GRI) Tax Standard. Questo modello impone alle società di rendere pubblici i ricavi, i profitti e le tasse pagate dalla società in ciascun Paese in cui opera (country-by country basis). Tale iniziativa non sembra essere un caso isolato: in un sondaggio di Deloitte [3] il 33% degli intervistati ha dichiarato che avrebbe aumentato il livello di disclosure in materia fiscale. È forse sintomo di una nuova sensibilità? Presto per dirlo.


Negli ultimi anni, infatti, il trend è stato tutt’altro che virtuoso. Esempio lampante è il caso Panama Papers: nel 2015 oltre 2.5 terabyte di dati relativi alle operazioni dello studio legale panamense Mossack Fonseca & Co, specializzato nella costituzione di entità offshore, finirono nelle mani di un quotidiano tedesco e dell’International Consortium of Investigative Journalists. Emerse che negli anni lo studio aveva creato 214,488 entità offshore, alcune delle quali riferibili a capi di Stato, come il primo ministro islandese, familiari del Presidente cinese Xi Jinping, persone vicine a Vladimir Putin, e a 128 politici e pubblici ufficiali in tutto il mondo, oltre che a personaggi di spicco, quali il famoso calciatore Lionel Messi [4]. Furono coinvolte nell'investigazione anche numerose banche, intermediari finanziari e multinazionali.


Ad oggi, l’Italia è il quarto paese europeo, dopo Germania, Francia e Regno Unito, per ricchezza accumulata in depositi di società offshore. Nel 2016, è stato calcolato che tali depositi abbiano sottratto alle entrate fiscali nazionali ben 1,73 miliardi di euro. Ma cos’è, effettivamente, una società offshore?


1. DEFINIZIONI

Il termine società offshore si riferisce a quelle società registrate in base alle leggi di uno Stato estero, ma che effettivamente conducono la propria attività fuori dallo Stato o dalla giurisdizione nella quale sono registrate. I paradisi fiscali, invece, sono Stati o territori la cui giurisdizione permette di costituire società offshore a tassazione pressoché nulla e di mantenere la totale segretezza circa l’attività di tali società e l’identità dei loro proprietari. Il punto cruciale è che in queste giurisdizioni non vi è alcun obbligo di comunicazione e trasmissione di informazioni tributarie con Stati a fiscalità ordinaria. Alcuni tra i principali paradisi fiscali sono: ​​Svizzera, Lussemburgo, Cayman, Bermuda, le Isole di Man e Jersey, Gibilterra, Mauritius, Niue, ma la lista è molto lunga.


In inglese, si sente spesso parlare anche di shell company. Il termine shell, traducibile come guscio, suggerisce graficamente le caratteristiche e la funzione svolta da tali società: si tratta di entità giuridiche al cui interno non si trova nulla. Esse non svolgono alcun tipo di attività, non assumono neanche personale. Basti pensare che alle Isole Cayman un unico edificio ospita gli uffici di ben 19.000 società offshore. Questo dato mostra come le shell companies esistano solo sulla carta, da un punto di vista giuridico, ma senza essere realmente operative. Esse, infatti, sono create solo al fine di trasferire ricchezza tra Stati a regime fiscale ordinario verso paradisi fiscali in modo da ottenere indebiti vantaggi fiscali e sottrarre redditi dall’imposizione. Le società offshore, inoltre, possono essere detentrici di immobili di lusso, proprietà intellettuali e ovviamente ingenti somme di denaro.


2. LA NORMATIVA ITALIANA

Ad oggi, la normativa italiana prevede un’unica elencazione di Paesi a fiscalità privilegiata, contenuta nel Decreto Ministeriale 4 maggio del 1999. Tale decreto è stato emanato in attuazione dell’art. 2, comma 2 bis, Testo Unico n. 917 del 1986, il quale stabilisce che, ai fini delle imposte sui redditi, sono considerati residenti, salvo prova contraria, anche i cittadini italiani cancellati dall’anagrafe e trasferiti in uno dei paesi considerati a fiscalità privilegiata ai sensi del DM 4 maggio 1999. L’art. 2, comma 2 bis, dispone, dunque, un’inversione dell’onere della prova: spetta al singolo dimostrare che il trasferimento di residenza in un territorio considerato paradiso fiscale è effettivo e non unicamente volto all’elusione fiscale. L’art. 167 del T.U.I.R., con la modifica dell’art.1, comma 142, della legge 208/2015 [5] , ha, però, stabilito una nuova modalità di individuazione dei paesi a fiscalità privilegiata. Il meccanismo di elencazione tassativa, dunque, è stato superato, trovando applicazione residuale solo in relazione alla presunzione di residenza delle persone fisiche.


L’art.167 T.U.I.R individua, inoltre, le condizioni al verificarsi delle quali i redditi conseguiti da società estere controllate, “controlled foreign companies”, sono imputati alle società controllanti residenti. Tale disposizione individua due requisiti [6]: i soggetti non residenti devono essere assoggettati ad una tassazione inferiore almeno del 50% rispetto a quella nazionale e ⅓ dei proventi devono rientrare nella categoria dei “passive income”.


3. LE CONVENZIONI INTERNAZIONALI

Nel 2013 l’OCSE ha presentato un Action Plan, ovvero un piano di quindici azioni, il cui scopo primario era quello di fornire agli Stati gli strumenti necessari per combattere i c.d. fenomeni BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”). A seguito di tale iniziativa, il 1 giugno 2018, fu approvato il Multilateral Instrument (MLI), uno strumento multilaterale sottoscritto da oltre 90 Stati. L’Italia non ha ancora provveduto a ratificare l’MLI, che pertanto non è oggi in vigore nel nostro Paese.


Il 30 ottobre 2021, nel corso del G20 a Roma, è stato inoltre raggiunto e approvato un accordo sulla c.d minimum tax, sulla scia della “global anti-base erosion proposal” (GloBe) dell’OCSE.Le direttive della proposta sono: a) la c.d “income inclusion rule”, regola per sottoporre a imposizione i redditi riferibili a entità estere qualora nelle giurisdizioni di residenza il c.d effective tax rate sia molto basso; b) la c.d “tax on base eroding payments” , volta a garantire il prelievo fiscale su quei pagamenti suscettibili di creare fenomeni di erosione di basi imponibili; c) la “subject tax rule”, che negherebbe alcuni benefici in tema di business profits [7]. L'accordo raggiunto sulla tassazione minima consiste in un'aliquota del 15%, che scatterà a partire dal 2023 e interesserà in particolar modo colossi del web e le grandi multinazionali.


[7] A. Contrino, “Fondamenti di Diritto Tributario - Seconda Edizione”, CEDAM, 2022, p. 324-325.

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