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WEBTAX: i Giganti del Web e la Giustizia Fiscale nell’Epoca dell’Economia Digitale

  • S. Lampreu
  • 28 nov
  • Tempo di lettura: 6 min

 

Da qualche anno a questa parte, in particolare negli ultimi vent’anni, l’economia mondiale è stata rivoluzionata da alcuni giganti del web come: Google, Amazon, Meta, Apple, eccetera. Senza alcun dubbio, la loro presenza ha trasformato il modo in cui compiamo qualsiasi azione, basti pensare alla comunicazione o alla compravendita. In relazione a ciò, in questo spazio ci concentreremo sul cambiamento che hanno apportato al modo in cui si genera profitto o, anche semplicemente, valore economico. Ciò che offrono sul mercato non è un bene materiale ( come il caso di un'automobile oppure di un frigorifero), bensì digitale: si tratta di dati, contenuti, servizi online; Il fenomeno comporta che questi beni “non fisici” non necessitino di “basi di lavoro” come magazzini o fabbriche, al contrario la loro unica esigenza è rappresentata dalle interazioni degli utenti all’interno di un server. Apparentemente, sembrerebbe un sistema molto immediato, una risorsa notevole per l’accelerazione della circolazione del denaro, ciò nonostante, questa attività fa sorgere non pochi dubbi soprattutto relativamente alla tassazione della stessa. Perché questo? Il problema nasce a causa del fatto che quasi l’intero numero dei sistemi fiscali mondiali si basi ancora sulla presenza fisica, la cosiddetta “stabile organizzazione”, per decidere in quale luogo sia possibile tassare l’impresa, e questo produce, nel campo della rete, un ingente guadagno in un determinato stato senza averci una sede, né dipendenti. Risulta evidente che, così facendo, le multinazionali coinvolte versino molte meno tasse rispetto a una qualsiasi impresa tradizionalmente intesa (con produzione e uffici sul territorio). Possiamo, infatti, analizzare quale sia stata a lungo la normativa del nostro paese riguardo alle condizioni per le quali è possibile tassare un’azienda. Italia→art.162 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) [N.B. valido dal 2004 al 2018]

1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 169, ai fini delle imposte sui redditi e dell'imposta regionale sulle attivita' produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, l'espressione "stabile organizzazione" designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l'impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attivita' sul territorio dello Stato.

2. L'espressione "stabile organizzazione" comprende in particolare: una sede di direzione; una succursale; un ufficio; un'officina; un laboratorio; una miniera, ungiacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali, anche in zone situate al di fuori delle acque territoriali in cui, in conformita' al diritto internazionale consuetudinario ed alla legislazione nazionale relativa all'esplorazione ed allo sfruttamento di risorse naturali, lo Stato puo' esercitare diritti relativi al fondo del mare, al suo sottosuolo ed alle risorse naturali.

Come riescono ad aggirare il sistema?

Innanzitutto, è necessario tener conto che le multinazionali per definizione sono collocate in più paesi e, grazie a questa caratteristica, riescono senza problemi a trasferire da uno stato a un altro i propri guadagni, chiaramente andando a prediligere lo stato con la tassazione meno incisiva.

Il metodo Double Irish e Dutch Sandwich

Queste aziende, con lo scopo di ridurre l’impatto fiscale, hanno messo in atto due differenti strategie di gestione delle tasse: mentre la prima sfrutta la legislazione irlandese, la seconda si serve dei Paesi Bassi, come passaggio intermedio. Nella prima ipotesi abbiamo un’azienda che gestisce le operazioni commerciali e un’altra, registrata in Irlanda anche se fiscalmente residente in un paradiso fiscale, che detiene la proprietà intellettuale, il che consente di percepire profitti con una tassazione molto bassa. Il Dutch Sandwich si innesta proprio su questo meccanismo, aggiungendo, però, una società con sede nei Paesi Bassi alle due Irlandesi. Questo serve a evitare le imposte su royalties e transazioni. Dunque, se il Double Irish punta sulla residenza fiscale delle società, il Dutch Sandwich consente di evitare le ritenute sui trasferimenti dei profitti, sfruttando gli accordi fiscali tra Irlanda e Paesi Bassi, attraverso i quali il denaro passa prima di essere mandato verso giurisdizioni a tassazione minima o nulla. Di ciò il caso più noto è quello di Google, il quale ha ha usufruito di queste strategie. Questa azienda, infatti, ha, inizialmente, trasferito i profitti derivanti da varie attività a una società irlandese, naturalmente sempre di proprietà di Google ( Google Ireland Holdings), che possedeva i diritti sull'IP. In un secondo momento, l'azienda passava i guadagni a una seconda azienda, residente fiscalmente in alcune isole dei Caraibi. Ad ogni modo, queste transazioni dovevano passare attraverso una terza filiale nei Paesi Bassi, Google Netherlands Holdings, tutto per scongiurare una possibile tassazione sui pagamenti, e sicuramente questi sforzi non sono stati vani dal momento che riuscivano ad abbassare il tasso di imposta a meno del 2,4%. Tuttavia, come era prevedibile, queste pratiche sono diventate un argomento molto discusso tra i politici e abbiamo avuto un vero e proprio punto di svolta nel momento in cui Stati Uniti e Unione Europea, dopo aver fatto una stima di tutte le perdite, hanno cominciato a sollecitare la comunità internazionale affinché venissero attuate delle riforme, portando così l’Irlanda a correggere le scappatoie che rendevano attuabile questo sistema: d’ora in poi “tutte le società devono essere residenti fiscali in Irlanda”.

Proposte di Webtax

La proposta di una possibile “Webtax” nasce ufficialmente nel 2013 da una collaborazione tra la Commissione Europea e l’OCSE in vista del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), e cioè una serie di iniziative per accentuare la lotta all’erosione della base imponibile e allo spostamento dei profitti. Cosa vuol dire tutto questo? Molto semplicemente si tratta di tassare i guadagni non dove le aziende li spostano, bensì dove vengono effettivamente generati.

Nel 2018 vengono avanzate due proposte di legge da parte della Commissione:

·      tassa temporanea→Digital Services Tax (DST)

·      riforma a lungo termine per creare una base imponibile comune per questo tipo di attività (digital permanent establishment)

DST:

1.    Aliquota del 3% sui ricavi di: pubblicità online, intermediazione su piattaforme digitali e vendita di dati generati dagli utenti

2.    soglia minima: aziende con ricavi superiori a 750 mln

Attraverso questi accorgimenti si sarebbe cercato di garantire che le imprese digitali contribuissero in modo equo rispetto alle aziende tradizionali, anche in assenza di una sede fisica. La Commissione stimava che la riforma avrebbe generato circa 5 milioni di euro annui di tasse e, inoltre, si sarebbe instaurato un sistema che avrebbe posto le basi in vista di una riforma globale permanente. Tutto questo, però, non successe, infatti, per essere approvata, sarebbe stata necessaria un’unanimità deim 27 paesi membri, non ottenuta proprio perché alcuni paesi, temendo di perdere competitività, vi si sono opposti (Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi). Di fronte a questo problema, si è deciso di lasciar agire in modo autonomo i singoli stati, pur mantenendo un criterio di compatibilità con il diritto internazionale europeo.

In Italia

Una sorta di bozza di Web Tax in Italia nasce nel 2013 e prende il nome di “Google Tax”, anche se era estesa, in generale, alle aziende digitali. L’obiettivo era quello di imporre di fatturare in Italia quei guadagni derivanti da servizi venduti a cittadini italiani. Dunque, se un’azienda straniera vendeva pubblicità a un’azienda italiana, il passaggio doveva assolutamente passare per una società italiana dello stesso gruppo ed essere tassata nel nostro paese. Questa opzione, purtroppo, presentava non poche criticità: rischiava di violare le regole europee sulla libertà di stabilimento, era difficile da applicare e poteva compromettere il paese a livello diplomatico (USA). A questo punto, tra il 2019 e il 2020 viene introdotta un’imposta sostanzialmente identica alla Digital Services Tax, differente solo per il fatto che la sua applicabilitàvalesse entro i nostri confini. Ad ora possiamo chiederci: sta dando dei risultati questa riforma? Possiamo dirci parzialmente soddisfatti visto che nel 2022 ha fruttato addirittura 300 milioni di euro, anche se dobbiamo tenere a mente che l’obiettivo sarà pienamente raggiunto solo quando ci sarà una legislazione sovranazionale. Siamo così lontani da questa prospettiva? In realtà non molto se si considera l’accordo OCSE-G20 del 2021 per cui più di 135 paesi (rappresentano il 90% del PIL mondiale) hanno aderito a una riforma del sistema fiscale

internazionale.

Questo accordo si divide in:

·      Pillar One: parte dei guadagni delle multinazionali più grandi deve essere redistribuita ai paesi di provenienza degli utenti, anche senza una sede, andando, perciò, ad attualizzare il concetto di “stabile organizzazione” di cui abbiamo parlato all’inizio;

·      Pillar Two: minimum tax globale: se una multinazionale paga meno del 15%, è possibile prelevare la differenza (top-up tax)

Diciamo che la sua applicazione è ancora in fase di sviluppo perché, se nel 2022 è stato convalidato il Pillar Two e reso una vera e propria direttiva in vigore dal 2024, invece, il Pillar One deve ancora essere definito perché, per succedere, c’è bisogno di un trattato che tutti gli stati devono firmare e ratificare per distribuire i profitti. Fino a quel momento, gli stati continueranno a mantenere le proprie Web Tax nazionali.

 

 
 
 

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