L’Economia di Mercato: una Lettura dai Profitti Aziendali
- R. Nannotti
- 6 ore fa
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Profitti ovvero indicatori del ciclo economico
Per capire a che punto siamo del ciclo economico, bisogna guardare all’andamento dei profitti aziendali, che rappresentano la vera linfa vitale di investimenti, occupazione e mercati finanziari.Nelle statistiche ufficiali, i profitti delle imprese americane hanno registrato nel secondo trimestre del 2025 solo un incremento minimo, accompagnato da una forte revisione al ribasso delle stime precedenti. Ciò indica che la redditività non sta accelerando come accadrebbe all’inizio di una nuova fase espansiva. Parallelamente, anche se il PIL reale è stato rivisto al rialzo fino al 3,8% annualizzato, questa crescita è in gran parte artificiale, sostenuta da un calo temporaneo delle importazioni dopo l’ondata del trimestre precedente legata ai dazi. Il vero segnale preoccupante arriva dai consumi: la spesa delle famiglie rimane fiacca, e poiché è da essa che derivano i ricavi e dunque i profitti delle imprese, la dinamica suggerisce un’economia in fase matura o in rallentamento, dunque non all’inizio di un nuovo ciclo di crescita.
La correlazione con il pil
Basta osservare alcuni grafici e notiamo subito come profitti e PIL si muovano insieme, mostrando una forte correlazione ciclica, per cui quando i profitti aziendali salgono il PIL tende a crescere, quando crollano il PIL rallenta ed entra in recessione, ne consegue che gli utili aziendali sono un anticipatore del ciclo economico. Quando la volatilità è maggiore del profitto gli utili amplificano i cicli economici salendo e scendendo bruscamente, in pratica i profitti reagiscono in modo esagerato ai cambiamenti della domanda e dei costi. Per quanto riguarda le recessioni, i grafici mostrano che in quasi tutte quelle avvenute dal 1970 al 2020 i profitti crollano prima o insieme al PIL, e subito dopo la recessione i profitti tendono a rimbalzare rapidamente segnalando l’inizio della ripresa economica. Dopo il crollo pandemico del 2020 si è verificato un picco eccezionale nei profitti nel 2021, seguito da un colpo rapido nel 2022-23, d'altra parte il PIL ha mantenuto una crescita stabile ma pur sempre in rallentamento, questo vuol dire che la spinta ciclica post-pandemica si sta esaurendo. Oggi la crescita degli utili in America è modesta rispetto al boom post 2020, suggerendo che l’economia americana si trovi in una fase di fine ciclo o pre-rallentamento e non in un nuovo boom espansivo.
La redditività aziendale frena la crescita
Tuttavia, dietro a un dato di crescita economica apparentemente brillante si nasconde una realtà più sobria, quella per cui la spinta dei profitti aziendali è molto più debole. In sostanza, la produzione è aumentata, ma gli utili non hanno seguito lo stesso ritmo. Questa divergenza è importante perché, per chi investe in azioni, sa che ciò che conta davvero non è il PIL ma la crescita degli utili. Nel secondo trimestre del 2025, i profitti societari dopo le tasse hanno raggiunto circa 3,26 trilioni di dollari su base annualizzata, un livello elevato, ma senza segni di accelerazione, allo stesso tempo, i margini netti sono sotto pressione e la crescita economica generale mostra segnali di rallentamento. L’economia sembra quindi muoversi in una fase di stagnazione ondulata, con margini ancora alti ma stabili, una combinazione che, unita a valutazioni azionarie già elevate, rende più difficile ottenere forti rendimenti futuri. Se si osservano le aziende quotate, emerge un quadro simile, inatti secondo i dati FactSet, gli utili aggregati dell’S&P 500 nel secondo trimestre 2025 sono cresciuti rispetto all’anno precedente, con margini medi intorno al 12,3%, superiori alla norma storica. È una notizia positiva, ma in gran parte già scontata nei prezzi di mercato. Inoltre, il resto dell’economia, in particolare le imprese più piccole e non quotate, non mostra lo stesso slancio, creando un divario marcato tra il settore corporate “visibile” e quello reale più diffuso. In prospettiva, gli analisti di Real Investment Advice ricordano che, nel lungo periodo, utili e attività economica tendono a muoversi insieme. I profitti possono superare temporaneamente la crescita reale grazie a stimoli fiscali, risparmi accumulati o squilibri commerciali, ma queste spinte non durano e prima o poi, la realtà economica riporta i margini e le valutazioni verso livelli più sostenibili. Le spese personali dei consumatori americani e la variazione dei profitti aziendali dopo le tasse mostrano 2 andamenti correlati, infatti, quando la spesa dei consumatori accelera, i profitti tendono a salire, quando rallenta i profitti crollano, in ogni recessione si è verificato un calo simultaneo di entrambi, negli anni dopo il boom post-covid (2021), la spesa e i profitti si sono entrambi raffreddati, stabilizzandosi su modelli più modesti, ciò suggerisce un'economia che ha esaurito la spinta della domanda e si trova ora in fase di crescita matura senza nuove forze espansive. Riguardo ai profitti delle imprese non finanziarie come percentuale del PIL e al tasso di crescita del PIL, storicamente, la quota dei profitti sul PIL oscilla ma tende a ritornare verso una media di lungo periodo, dopo il picco del 2021, l’andamento ha mostrato un plateau e un inizio di flessione, nel frattempo, la crescita del PIL è rallentata, quindi la redditività relativa delle imprese ha raggiunto un massimo ciclico, i profitti, pur ancora elevati, non crescono più rapidamente dell'economia reale, segnalando una possibile discesa nella fase finale del ciclo. Sui profitti delle piccole imprese private e profitti delle grandi società quotate si può vedere come dal 2000 in poi, vi sia un divario crescente, i grandi gruppi pubblici hanno aumentato la loro quota di redditività (oltre il 40%) mentre quella delle piccole imprese è scesa del 30%, ciò riflette un’economia sempre più concentrata, dove i grandi operatori (multinazionali, società S&P 500) beneficiano di economie di scala, accesso ai mercati dei capitali e potere di prezzo, mentre le piccole imprese restano più esposte a costi e margini compressi. Questa divergenza spiega perché gli indici azionari possono apparire solidi anche quando il tessuto economico più diffuso non mostra la stessa forza.
Il mito dell'avidità aziendale
Le imprese non creano l’inflazione, la subiscono e si adattano. Quando la domanda dei consumatori è forte e l’offerta scarsa, possono aumentare i prezzi per compensare i costi più alti ma quando la domanda rallenta, sono costrette a ridurli per continuare a vendere. In altre parole, le aziende reagiscono alle condizioni economiche, non le determinano, l’inflazione nasce da uno squilibrio tra moneta, domanda e offerta, non dall’avidità delle imprese. La teoria per cui l’inflazione sia causata dall’avidità delle aziende non regge, l'inflazione nasce da uno squilibrio tra domanda e offerta, non dalla volontà delle imprese di aumentare i prezzi. Durante la pandemia, i governi hanno chiuso l’economia (riducendo l’offerta) e contemporaneamente inondato le famiglie di liquidità con assegni e sussidi (aumentando la domanda). Questa combinazione ha fatto impennare i prezzi. Le imprese non hanno creato l’inflazione, hanno solo reagito all’aumento dei costi e alla forte domanda, cercando di mantenere i margini. Citando Milton Friedman, “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario”, è il risultato di troppa moneta in circolazione rispetto ai beni disponibili, e solo il governo e la Federal Reserve, che controllano la stampa di denaro e le politiche fiscali, possono causarla. Le aziende, i consumatori o i sindacati non possiedono una “stampa di dollari” per generarla. Le imprese, infatti, aumentano i prezzi solo se i loro costi salgono (materie prime, salari, energia) e se la domanda è abbastanza forte da sostenerli. Quando la domanda cala, sono costrette a ridurre i prezzi e i margini. Il recente calo dei profitti e dell’inflazione ne è la prova. Queste politiche pubbliche (come aumenti del salario minimo o stimoli eccessivi) e le speculazioni di Wall Street sui mercati delle materie prime contribuiscono a spingere i prezzi, ma non per “avidità” aziendale, sono effetti collaterali di decisioni politiche e finanziarie. Quindi, l’inflazione non nasce dall’avidità delle imprese bensì dalle scelte dei governi e delle banche centrali che immettono troppo denaro nel sistema e alterano i normali equilibri di mercato. Le aziende non sono enti di beneficenza, dunque reagiscono agli incentivi economici per sopravvivere e remunerare gli azionisti. Dopo la pandemia il dibattito sull’inflazione si è riaperto, con la domanda se i margini aziendali ne fossero la causa o la conseguenza, e come confermano la BCE e la Federal Reserve, le imprese non generano inflazione, ma ne subiscono gli effetti. L’aumento dei prezzi è nato dallo squilibrio tra una domanda eccezionalmente forte, gonfiata dagli stimoli pubblici, e un’offerta limitata dalle interruzioni produttive durante la pandemia. In quella fase, le aziende sono riuscite a mantenere o ampliare i margini perché la domanda superava l’offerta. Tuttavia, una volta ristabilite le catene di fornitura e normalizzati i consumi, questo effetto si è esaurito, i rincari non dipendono più dai profitti, ma da costi e dinamiche reali di domanda e offerta. Osservando i margini di profitto e l’inflazione possiamo notare come questi (i profitti) seguono l’inflazione, non la causano. Durante la fase espansiva, le imprese beneficiano dell’aumento della domanda ma quando la domanda cala, i margini si comprimono. Ciò conferma l’idea che le aziende reagiscono all’inflazione, non la generano. Le valutazioni di mercato restano alte perché gli investitori assumono che i margini record dureranno, ma la realtà macroeconomica suggerisce il contrario, con meno stimoli fiscali e una domanda più debole, difendere la redditività sarà sempre più complesso, e i mercati rischiano di scontare aspettative di utili troppo ottimistiche. L’inflazione dei prezzi unitari delle imprese non finanziarie è strettamente collegata ai costi del lavoro e ai costi totali per unità di output. Dopo la crisi del 2008, i costi del lavoro e i prezzi aziendali sono rimasti contenuti per oltre un decennio, segnalando una fase di inflazione bassa e stabilità dei margini. Nel 2021–2022, invece, si nota un forte rialzo simultaneo, l’offerta era limitata e la domanda gonfiata dagli stimoli fiscali, facendo esplodere sia costi che prezzi. Dal 2023 in poi, entrambe le curve tornano a scendere e i costi del lavoro si normalizzano (crescono di meno dell’1%) e anche i prezzi unitari rallentano. Questo andamento conferma che l’inflazione recente non nasce dai profitti “eccessivi” ma da un temporaneo aumento dei costi e della distorsione della domanda/ offerta. Oggi, con la normalizzazione dei costi, le imprese riescono a mantenere i margini solo se la crescita dei ricavi resta stabile. Confrontando invece l’andamento cumulativo dei profitti reali delle imprese con quello del S&P 500 reale si nota come nelle fasi storiche di equilibrio (anni ’60, ’80-’90), l’indice azionario e i profitti reali si muovevano insieme, segnalando un legame sano tra mercati e redditività. Tuttavia, in diverse fasi come la crisi finanziaria del 2008 e l’attuale “Central Bank Bubble”, l’S&P 500 cresce molto più rapidamente dei profitti. Questo indica che le valutazioni azionarie si sono gonfiate oltre i fondamentali grazie a politiche monetarie ultra-espansive e bassi tassi d’interesse. Oggi la distanza tra mercato e profitti è di nuovo ampia, suggerendo una sopravvalutazione potenziale e un rischio di correzione se la redditività rallenta. Dunque, se deficit pubblici e stimoli fiscali si riducono e i profitti reali non tengono il passo, i mercati, sostenuti più da liquidità che dalla crescita effettiva, diventano vulnerabili.
I mercati e una realtà inesistente
Nel 2025, i mercati finanziari sembrano correre più veloci dei fondamentali. Le valutazioni azionarie e l’ottimismo degli investitori sono ai massimi storici, ma i profitti aziendali reali crescono poco. L’S&P 500 tratta con multipli P/E tra i più alti dal 1985 (circa 22,5 volte gli utili attesi), segno che le aspettative di crescita sono molto elevate. Tuttavia, se gli utili deludono anche solo lievemente, il rischio di correzioni aumenta perché il margine d’errore è minimo. Inoltre, la storica correlazione tra crescita del PIL e utili sta divergendo segnalando che i mercati prezzano più speranza che realtà economica. Il sentiment degli investitori è fortemente positivo, sostenuto da pochi titoli “mega-cap” e dalla narrativa dell’intelligenza artificiale. Quando ottimismo, concentrazione e valutazioni elevate coincidono, il mercato diventa fragile cioè bastano revisioni di utili solo “meno brillanti” per creare volatilità improvvisa. Una parte della solidità apparente degli utili deriva ancora da buyback massicci, che riducono il numero di azioni in circolazione e gonfiano gli utili per azione, ma non aumentano i profitti reali dell’economia. È un effetto contabile, non produttivo, e riduce il capitale disponibile per investimenti futuri. Oggi nei mercati, sono i profitti reali, non le aspettative, a pagare i conti. Meglio che i portafogli restino ancorati a quella realtà. Quindi bisognerebbe prendere profitto dove i prezzi sono tirati, accumulare sui ribassi, mantenere diversificazione, e lasciar guidare le scelte dai dati reali, non dai sentiment.
Il mercato diviso tra ottimismo e rischio
Il mercato oggi: Scott Rubner di Citadel Securities descrive un mercato in bilico tra forti aspettative e fondamentali più fragili. Da un lato, l’ottimismo su tagli dei tassi, progresso dell’IA, crescita della produttività e utili solidi continua a spingere gli indici, soprattutto nel tech. Dall’altro, si moltiplicano i segnali di squilibrio: valutazioni elevate. inflazione solo parzialmente domata, rallentamento fuori dai settori trainanti e posizionamenti degli investitori ormai estremi.
BULL CASE= oggi l’ottimismo ha ancora basi solide, questo perché i rialzisti puntano su 4 forze principali :
1) tagli dei tassi FED, se la banca centrale continuerà ad allentare la politica monetaria senza riaccendere l’inflazione, i multipli elevati potranno reggere e il credito resterà favorevole a consumi e investimenti.
2) Utili robusti nel tech/AI, le grandi società tecnologiche mostrano crescita dei ricavi, margini in espansione e guidance ottimiste, sostenendo la fiducia degli investitori. 3) Buyback record, con oltre 1.000 miliardi di dollari previsti nel 2025, i riacquisti di azioni continuano a sostenere gli EPS e la domanda azionaria. 4) Flussi retail e liquidità, gli investitori individuali affluiscono massicciamente nei fondi e nei titoli tecnologici; oltre il 60% delle operazioni azionarie USA è ora di piccola taglia, segno di partecipazione diffusa. Se queste condizioni persisteranno, con inflazione stabile, crescita moderata e liquidità abbondante — l’S&P 500 potrebbe teoricamente spingersi fino a 7.000 punti entro fine 2025.
BEAR CASE= bisogna anche dire che gli elementi di rischio sono altrettanto chiari: 1) Valutazioni estreme, il forward P/E intorno a 22–23x è tra i più alti degli ultimi 40 anni; basta un rallentamento degli utili per generare una correzione. 2) premio per il rischio azionario ridotto, con rendimenti obbligazionari più interessanti, le azioni offrono un vantaggio minimo. 3) Crescita disomogenea, il traino è concentrato su poche mega-cap; mid e small cap mostrando segnali di debolezza, i rischi macro e geopolitici, tensioni commerciali, inflazione residua, debito elevato e possibili shock globali possono minare la fiducia. 4) Eccesso di ottimismo, indicatori di sentiment e posizionamento segnalano euforia e scarsa copertura; un’inversione dei flussi sistematici (ETF, fondi passivi) potrebbe amplificare le perdite. Tra i possibili trigger negativi vi è una nuova fiammata inflazionistica, una Fed più prudente sui tagli, delusioni sugli utili non-tech o shock geopolitici.
In questo mercato bisogna mantenere la flessibilità cioè tenere liquidità pronta e non essere totalmente esposti. Concentrarsi sulla qualità, privilegiare società solide, con bilanci forti e flussi di cassa reali, evitando titoli “di moda” troppo cari. Gestire il rischio attivamente, usare coperture (opzioni, ETF inversi, volatilità lunga), ridurre le concentrazioni e riequilibrare periodicamente. Ruotare i settori, se i tassi scendono, favorire ciclici e industriali; se i rischi aumentano, rifugiarsi nei difensivi. Restare realistici, i rendimenti futuri saranno probabilmente più modesti e volatili; l’obiettivo deve essere preservare capitale, non inseguire euforia. Oggi il mercato si trova in un punto di equilibrio instabile, le forze rialziste (tagli dei tassi, AI, liquidità) sono già ampiamente prezzate, mentre i rischi (valutazioni, rallentamento, geopolitica) restano sottostimati. Bisogna avere disciplina e prudenza, non serve scegliere tra “bull” o “bear”, ma costruire un portafoglio che possa resistere a entrambi gli scenari. I mercati vivono di profitti, non di promesse. Oggi bisogna allineare i propri investimenti alla realtà degli utili e non solo alle aspettative, questa è la miglior difesa in questa fase di euforia razionale. Gli investitori stanno pagando molto caro ogni dollaro di utili, basandosi su aspettative ottimistiche di crescita futura. Le valutazioni così elevate implicano che qualsiasi delusione sugli utili o sul PIL può generare correzioni rapide. Il mercato non ha margini d’errore e i prezzi riflettono già il “miglior scenario possibile”. Per quanto riguarda il rapporto tra la crescita reale del PIL USA e la variazione annuale percentuale degli utili per azione dell’S&P 500. Vediamo come storicamente, i profitti e il PIL si muovono in modo fortemente correlato, quando l’economia rallenta, anche gli utili diminuiscono. Tuttavia, dal 2020 in poi si osserva una divergenza anomala per cui gli utili dell’S&P 500 hanno rimbalzato violentemente dopo la pandemia, molto più del PIL, grazie a fattori straordinari (stimoli fiscali, liquidità, buyback, AI). Negli ultimi trimestri, però, questa differenza si sta riducendo, la crescita degli utili sta rallentando mentre il PIL si mantiene modesto.Questa divergenza indica che i mercati hanno corso più dell’economia reale. Se la crescita economica rimane debole, gli utili difficilmente potranno sostenere valutazioni così alte. Storicamente, quando il divario fra EPS e PIL si amplia troppo, segue quasi sempre una fase di riallineamento (cioè utili e prezzi che rallentano insieme). Quindi oggi le valutazioni sono tirate e il legame tra il mercato o fondamentali è fragile. Finché la narrativa su tassi in calo e crescita AI resiste, il trend può reggere, ma se gli utili non confermano, il rischio di correzione aumenta in modo proporzionale all’ottimismo.

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