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Prezzi Imposti e Lusso Sotto Accusa: la Commissione Europea Sanziona Gucci, Chloé e Loewe per Pratiche Anticoncorrenziali

  • G. Bonvicini
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 9 min

Una notizia che scuote il mercato del lusso: la Commissione europea ha multato le aziende

di alta moda Gucci, Chloé e Loewe per aver adottato la pratica del “Resale Price

Mantaining” (RPM), in violazione delle norme europee sulla concorrenza. L'indagine della

Commissione europea è durata anni, concludendosi con un’ispezione a sorpresa che ha

scoperchiato un sistema che limitava, attraverso pratiche anticoncorrenziali, la capacità dei

rivenditori terzi indipendenti di stabilire i propri prezzi di vendita al dettaglio per i prodotti

disegnati e venduti dalle suddette case di moda con i rispettivi marchi.

Le multe, che sono state ridotte in tutti e tre i casi grazie alla collaborazione delle aziende

con l'esecutivo UE, ammontano complessivamente a oltre 157 milioni di euro, di cui 119,7

milioni di euro per Gucci, 19,7 milioni di euro per Chloé e 19,7 milioni di euro per Loewe.

La violazione della normativa europea si è estesa sull’intero “Spazio Economico Europeo”

(SEE) e ha avuto dunque un significativo impatto sull’andamento dei prezzi dei beni di lusso

e sulla possibilità di applicazione di scontistiche da parte dei rivenditori. La conseguenza

principale della condotta posta in essere è stata la limitazione della concorrenza nel settore

di mercato dell’alta moda.

“Oggi abbiamo multato tre case di moda europee per aver interferito con i prezzi dei loro

rivenditori indipendenti, violando le norme UE sulla concorrenza. In Europa, tutti i

consumatori, qualunque cosa acquistino e ovunque lo acquistino, online o offline, meritano i

benefici di una vera concorrenza sui prezzi. Questa decisione invia un forte segnale

all’industria della moda e non solo: non tollereremo questo tipo di pratiche in Europa perché

la concorrenza leale e la tutela dei consumatori valgono per tutti, allo stesso modo”, così si

pronuncia a riguardo la commissaria europea alla Concorrenza Teresa Ribera.

Le tre case del lusso europee: una panoramica introduttiva

Tutte e tre le aziende coinvolte nello scandalo anticoncorrenziale sono attive a livello

internazionale nella progettazione, produzione e distribuzione di prodotti di alta moda, tra cui

abbigliamento, pelletteria e accessori vari.

In particolare, il marchio Gucci è detenuto dalla società madre francese Kering, avente una

capitalizzazione di mercato pari a circa 37,43 miliardi di euro e il cui azionista di

maggioranza è la holding Artemis, di proprietà della famiglia Pinault. Negli ultimi anni, il titolo

della Kering SA ha subito una forte flessione a causa delle non soddisfacenti performance di

Gucci, le cui difficoltà sono state legate a un generale rallentamento del mercato del lusso e

a scelte di governance interne.

Riechmond è invece una holding finanziaria svizzera, avente sede a Ginevra e quotata nella

Borsa di Zurigo per un valore complessivo di 85,80 miliardi di euro, che possiede svariati

marchi di lusso quali Cartier, Van Cleef & Arpels, Montblanc, IWC e, per quanto di interesse,

Chloé.

Infine, la casa di moda spagnola Loewe è di proprietà del colosso francese Lvmh, le cui

azioni hanno un valore complessivo di mercato pari a 306,91 miliardi di euro.

La condotta sanzionata: uno sguardo più da vicino

L’accusa e la successiva condanna avanzate da Bruxelles avevano ad oggetto una

particolare fattispecie di pratica anticoncorrenziale denominata “Resale Price Maintaning”,


ossia “mantenimento del prezzo di rivendita”. Tale condotta illegale si configura quando il

fornitore impone ai rivenditori indipendenti di non scendere al di sotto di un prezzo minimo di

vendita al dettaglio, sia online sia nei punti vendita fisici, limitando così la concorrenza sui

prezzi in danno dei consumatori. Tali comportamenti, qualificabili come gravi restrizioni

verticali della “catena del valore” (value chain), producono effetti distorsivi sul mercato, in

quanto determinano un incremento artificioso dei prezzi di vendita al dettaglio e riducono la

libertà di scelta dei consumatori, compromettendo il corretto funzionamento del principio di

libera concorrenza all’interno del mercato unico europeo.

In particolare, le tre aziende di moda hanno interferito con le strategie commerciali dei

rivenditori imponendo loro stringenti restrizioni, tra cui il divieto di discostarsi da: (i) i prezzi di

rivendita fissati dalle aziende; (ii) gli sconti massimi dalle stesse stabiliti; (iii) i periodi

predeterminati per l’applicazione delle scontistiche. In alcuni casi, queste società sono

giunte addirittura a proibire, seppur temporaneamente, qualsiasi forma di sconto da parte dei

rivenditori, imponendo loro di adottare le medesime condizioni di prezzo applicate dalle

aziende direttamente nei loro canali di vendita.

Ma quale la finalità ultima della condotta? Le strategie di Gucci, Chloé e Loewe erano

sostanzialmente dirette a proteggere le proprie vendite dalla concorrenza con i rivenditori.

Analizzando un esempio pratico, Gucci ha imposto ai rivenditori il divieto di vendere online

una particolare linea di prodotti, che potevano essere quindi offerti al pubblico solo

attraverso i punti vendita fisici.

La pratica del “Resale Price Maintaining”: gli step fondamentali

Il metodo del RPM consta fondamentalmente di quattro fasi.

Innanzitutto, è necessario identificare il prezzo di rivendita, ossia l’importo al quale il prodotto

viene venduto a un terzo indipendente: in altri termini, si tratta del prezzo “di mercato”

applicato ai beni ceduti a soggetti non collegati (che, nel caso in esame, sono i rivenditori).

Successivamente, si procede con l’individuazione del margine di profitto lordo conseguibile

dal rivenditore, che deve rispecchiare le cosiddette Comparable Uncontrolled Transactions,

(CUTs), ovverosia le transazioni comparabili in cui altre imprese indipendenti vendono lo

stesso prodotto o un prodotto simile. Ai fini della determinazione di un margine equo e

coerente con il mercato, è necessario prendere in considerazione le funzioni svolte dal

rivenditore e i rischi da esso assunti.

Una volta determinato un margine di profitto lordo comparabile, lo stesso viene sottratto dal

prezzo di rivendita. La differenza così ottenuta rappresenta il costo di acquisto a valore

normale dei beni originariamente acquistati dall’impresa collegata. Se il margine del

rivenditore si discosta dai parametri di riferimento derivanti dai dati di mercato tra soggetti

indipendenti, le autorità fiscali possono contestare il prezzo e procedere ad adeguamenti, al

fine di riallinearlo ai principi di libera concorrenza.

Infine, è necessario verificare se il profilo del rivenditore differisca o meno da quello dei

rivenditori comparabili e, nel caso in cui ciò accada, potrebbero doversi attuare delle

rettifiche al fine di garantire una comparazione attendibile. Un’accurata analisi funzionale di

mercato diviene quindi essenziale per giustificare eventuali modifiche o aggiustamenti ai dati

utilizzati.

La normativa europea violata: l’art. 101 TFUE e l’art 53 EEA Agreement

Le decisioni adottate dall’esecutivo europeo accertano che le condotte anticoncorrenziali

oggetto dei tre procedimenti integrano un’unica e continuativa violazione dell’art. 101 del


Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e dell’art. 53 dell’Accordo sullo

Spazio economico europeo (SEE). Tali disposizioni vietano gli accordi e le pratiche

concordate che abbiano per oggetto e/o per effetto quello di impedire, restringere o falsare

la concorrenza nel mercato interno, potenzialmente incidendo sugli scambi tra Stati membri.

Sebbene le tre case di moda abbiano operato in modo formalmente indipendente, la parziale

coincidenza temporale delle condotte e la comune presenza dei medesimi rivenditori, i quali

commercializzano prodotti firmati da tutti e tre i brand, rivelano un contesto

complessivamente omogeneo.

Le tre decisioni riguardano il segmento più elevato del settore della moda e assumono

particolare rilievo in quanto riaffermano con forza l’illiceità delle pratiche di Resale Price

Maintaining (RPM).

L’art. 101 TFUE sancisce espressamente il divieto di accordi che violano i principi generali

che regolano il mercato interno. Nello specifico, sono vietati “all agreements between

undertakings, decisions by associations of undertakings and concerted practices which may

affect trade between Member States and which have as their object or effect the prevention,

restriction or distortion of competition within the internal market, and in particular those

which:

(a)directly or indirectly fix purchase or selling prices or any other trading conditions; […]”.

La condotta illecita di cui le aziende sono state accusate può essere sussunta nel punto (a)

del sopracitato articolo, trattandosi per l’appunto di una pratica finalizzata a fissare

direttamente i prezzi (e/o altre condizioni) di vendita dei prodotti sul mercato.

Il comma secondo dell’art 101 TFEU precisa, inoltre, che “any agreements or decisions

prohibited pursuant to this Article shall be automatically void”: viene così sancita la nullità ex

lege di qualsiasi accordo che integri la pratica del RPM all’interno dello Spazio Economico

Europeo. La finalità delle gravi conseguenze sanzionatorie di qualsiasi patto restrittivo della

concorrenza è chiara: tutelare i principi cardine che permeano le fondamenta del mercato

interno europeo, basato sul pilastro della libera circolazione di merci, persone, servizi e

capitali.

Il dispositivo dell’art. 101 TFUE è inoltre richiamato all’art. 53 dell’Accordo sullo SEE (Spazio

Economico Europeo), che al Capitolo I, Parte IV della legge, disciplina la concorrenza ed in

particolare enuncia le regole applicabili ai contratti.

Art. 53, comma 1.: “The following shall be prohibited as incompatible with the functioning of

this Agreement: all agreements between undertakings, decisions by associations of

undertakings and concerted practices which may affect trade between Contracting Parties

and which have as their object or effect the prevention, restriction or distortion of competition

within the territory covered by this Agreement, and in particular those which:

(a)directly or indirectly fix purchase or selling prices or any other trading conditions; […].”

Le sanzioni imposte dalla Commissione europea: un gioco di bilanciamenti

La Commissione europea, nel valutare le sanzioni da imporre alle tre case di moda, si è

basata sulla normativa europea che detta le linee guida per l’imposizione di ammende,

entrata in vigore nel 2006 (“Guidelines on the method of setting fines imposed pursuant to

Article 23(2)(a) of Regulation No 1/2003”).

Gli elementi di cui la Commissione ha tenuto conto nella valutazione del caso in analisi sono

molteplici: la gravità e la durata della violazione, l’area geografica colpita, il valore delle

vendite direttamente e indirettamente realizzate dalle aziende nello SEE nel periodo in

esame.


Inoltre, la Commissione ha dovuto tener conto del fatto che le tre imprese hanno collaborato

attivamente nell’ambito della procedura di cooperazione in materia antitrust. Di

conseguenza, le riduzioni individuali delle ammende riflettono il momento e la rilevanza del

contributo fornito da ciascuna impresa nel corso dell’indagine.

In particolare, Gucci e Loewe hanno fornito elementi probatori di significativo valore aggiunto

in una fase precoce del procedimento. Rispettivamente: la cooperazione di Gucci ha

consentito di rivelare un’infrazione alle norme europee sulla concorrenza che non era ancora

nota alla Commissione; quella di Loewe ha permesso di estendere l’ambito temporale della

condotta accertata.

Tutte e tre le case di moda hanno oltretutto riconosciuto espressamente i fatti e le relative

violazioni delle norme antitrust dell’Unione europea, circostanza che ha consentito alla

Commissione di concludere i procedimenti nell’ambito della procedura di cooperazione

antitrust.

Dal punto di vista quantitativo, questo atteggiamento propositivo ha permesso alle aziende

di vedersi ridotta la sanzione del 15% (Chloé) fino addirittura al 50% (Gucci e Loewe).

La procedura di cooperazione antitrust: una pratica vincente per tutti

La Commissione europea, in forza del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea,

dispone di ampi poteri d’indagine, tra cui la possibilità di effettuare ispezioni presso i locali

aziendali, nonché di imporre sanzioni pecuniarie alle imprese che violano le norme antitrust

europee. Le principali disposizioni procedurali in materia sono contenute nel Regolamento

(CE) n. 1/2003 del Consiglio, che disciplina, per l’appunto, i poteri d’indagine e le modalità di

applicazione degli articoli 101 e 102 TFUE.

Nel caso in esame, la Commissione ha avviato le indagini d’ufficio, procedendo nel mese di

aprile 2023 a ispezioni senza preavviso presso le sedi di Gucci (in Italia), Chloé (in Francia)

e Loewe (in Spagna), mentre i procedimenti formali sono stati successivamente aperti solo

nel luglio 2024.

La procedura di cooperazione antitrust si ispira al modello, ormai consolidato, della

procedura di settlement in materia di cartelli, i quali rappresentano una delle forme più gravi

di violazione delle norme anticoncorrenziali e sono generalmente caratterizzati da un elevato

grado di segretezza, che ne rende difficile l’individuazione. Nello specifico, essi si

concretizzano nelle condotte poste in essere in violazione dell’art. 101 TFUE (accordi

restrittivi della concorrenza) e dell’art. 102 TFUE (divieto di posizione dominante).

Per incentivare la scoperta di tali intese, la Commissione ha istituito un programma di

clemenza (c.d. “leniency programme”), che incoraggia le imprese a fornire prove interne

sull’esistenza di cartelli in cambio di immunità totale o riduzioni significative delle ammende.

Più precisamente, la prima impresa appartenente a un cartello che presenta domanda di

clemenza può ottenere l’immunità integrale dalla sanzione, qualora le informazioni fornite

siano sufficienti ad avviare un’indagine. Parallelamente, la Commissione svolge anche

indagini autonome finalizzate all’individuazione di cartelli e altre pratiche restrittive della

concorrenza.

Con la medesima finalità, la Commissione ha inoltre istituito uno strumento volto a facilitare

la segnalazione di comportamenti anticoncorrenziali, garantendo al contempo il

mantenimento dell’anonimato del segnalante (c.d. “whistleblower”): ciò è reso possibile

grazie ad un sistema di messaggistica criptato appositamente progettato, che consente una

comunicazione bidirezionale sicura tra il segnalante e la Commissione.


La procedura di cooperazione antitrust può essere oltretutto applicata anche in ulteriori casi

in cui le imprese intendano riconoscere la propria responsabilità per una violazione delle

norme di concorrenza dell’Unione europea. Un simile approccio cooperativo, da un lato,

consente alla Commissione di adottare una procedura più semplice e rapida, e dall’altro, le

imprese collaboranti possono beneficiare di una riduzione dell’importo dell’ammenda.

L’esecutivo valuta, caso per caso, se un procedimento sia idoneo alla cooperazione,

tenendo conto della probabilità di raggiungere un’intesa con l’impresa interessata entro un

termine ragionevole. Non sussiste, tuttavia, né un diritto né un obbligo per le imprese di

intraprendere il suddetto percorso cooperativo.

Ma quale la destinazione del denaro derivante dalle ammende inflitte alle aziende per

violazione delle norme antitrust dell’Unione europea? Esse vengono versate nel bilancio

generale dell’UE: tali proventi, tuttavia, non sono vincolati a spese specifiche, ma

comportano una riduzione dei contributi che gli Stati membri devono versare al bilancio

dell’Unione per l’anno successivo. In questo modo, le sanzioni contribuiscono di fatto al

finanziamento dell’UE e riducono l’onere fiscale per i cittadini europei.

L’azione per il risarcimento del danno: la tutela del singolo soggetto leso

Qualsiasi persona fisica o impresa che abbia subito un pregiudizio derivante da

comportamenti anticoncorrenziali, come quelli descritti nei casi in esame, può adire i giudici

nazionali degli Stati membri al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti. La Direttiva sul

risarcimento del danno antitrust (“Antitrust Damages Directive”) ha ulteriormente semplificato

l’accesso al risarcimento per le vittime di pratiche anticoncorrenziali

Secondo l’opinione prevalente della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione

europea e sulla base del Regolamento (CE) n. 1/2003, una decisione della Commissione

divenuta definitiva è vincolante e incontestabile dinanzi ai giudici nazionali con riguardo

all’esistenza del comportamento ritenuto illecito. Tuttavia, i giudici nazionali hanno il potere

di condannare il soggetto che ha posto in essere l’illecito ad un risarcimento che può non

tener conto della sanzione amministrativa precedentemente imposta a livello comunitario.

 
 
 

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